Intervista a Cecilia Andorno (co-autrice del libro Imparare e Insegnare la grammatica)

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Cecilia Andorno lavora a Pavia, presso la Facoltà di Lettere e Filosofia, nel Dipartimento di Linguistica Teorica e Applicata. Si occupa di linguistica testuale, di didattica della grammatica e di acquisizione dell’italiano L2. Fra le sue pubblicazioni Grammatica. Insegnarla e impararla (con F. Bosc e P. Ribotta), Guerra, Perugia 2003, testo rivolto a insegnanti di italiano per stranieri, e La grammatica italiana, Bruno Mondatori, Milano 2003.

Nell’introduzione al suo libro La grammatica italiana – un libro pensato per italiani – lei parla di un suo tentativo di indurre il lettore “a trasformarsi da studente in studioso”. Ambizioso proposito. Forse potrebbe dirne qualcosa di più. E poi le chiedo: estenderebbe questo proposito allo studente di italiano L2?
La grammatica a cui si riferisce non era destinata all’apprendimento della grammatica italiana, e neppure alla soluzione di dubbi grammaticali che possono sorgere anche nel parlante competente. L’obiettivo è quello di introdurre il lettore all’ambito di ricerca della linguistica partendo da ciò che probabilmente è a lui più familiare, ovvero la grammatica italiana così come normalmente appresa a scuola. (Il titolo della prima edizione di quella grammatica, che io preferivo, era appunto “Dalla grammatica alla linguistica”). La differenza rispetto alla grammatica scolastica vuole essere di metodo, perché l’obiettivo di quel volume è proprio quello di illustrare un metodo: il metodo del ricercatore che formula un’ipotesi e la testa sui dati cercando se essi la smentiscono o meno. La grammatica viene invece spesso appresa a scuola in modo non critico, come un coacervo di definizioni, non sistematizzate in un modello unitario, che vengono date come incontrovertibili e esistenti a priori: come se la lingua fosse tutt’uno con le categorie che la descrivono e queste fossero date a priori una volta per tutte, e non si potesse fare altro che applicarle ai dati. L’obiettivo di quel lavoro è di mostrare che, invece, le categorie scaturiscono dall’osservazione della realtà, sono ipotesi di descrizione; anche i linguisti operano attraverso ipotesi, esperimenti, modelli.
L’attitudine alla riflessione metalinguistica, questa è un’attività di cui tutti noi siamo capaci naturalmente (cioè, anche in assenza di insegnamento): la capacità di operare induzioni attraverso l’analisi non passa solo attraverso la scuola, anche se questa sperabilmente l’affina. Studiare la grammatica significa in questo senso solo concentrarsi su questa attività in modo esplicito; in questo senso, lo studio della grammatica sviluppa le capacità logiche, l’osservazione, il pensiero astratto. E, per venire alla seconda parte della domanda, questo è qualcosa che possono fare, e anzi fanno, anche i parlanti non nativi di una lingua (l’apprendente cinese che dichiara che il passato italiano è “sempre con -to” sta appunto facendo una generalizzazione linguistica). Se la domanda invece riguarda l’opportunità di lavorare in questo modo, con nativi e non nativi, per sviluppare la competenza linguistica, allora sarei più cauta.

Una cautela piuttosto condivisa, se si guarda una buona parte della produzione di corsi di italiano per stranieri. Il lavoro sulla grammatica è proposto in genere secondo queste linee: osservare e registrare dati preanalizzati del sistema (“Osserva, questi sono gli articoli!”), sforzarsi di produrre strutture corrette. Di ricerca non ce n’è gran che, mi pare.
Di nuovo, farei attenzione a distinguere gli obiettivi di chi studia la grammatica per “usare la lingua in modo più corretto” e chi la studia per acquisire una maggiore consapevolezza metalinguistica. Quando si impara una lingua in ambito scolastico, l’insegnante è visto come “colui che sa” e da cui ci si attende soluzioni, non domande: questa aspettativa secondo me va rispettata. Non credo che la pratica induttiva sia necessariamente la risposta migliore alle esigenze dell’apprendente di una seconda lingua. In questo caso, secondo me, non è tanto lo studente che deve avere l’atteggiamento da studioso, ma l’insegnante, quando prepara le sue lezioni: essere un parlante nativo non basta per essere consapevoli, esplicitamente, delle regole che governano una lingua, e per insegnare una lingua occorre invece una consapevolezza metalinguistica che richiede un atteggiamento da studioso. Solo così l’insegnante può gestire le richieste di conoscenza che vengono dallo studente e, ad esempio, aiutarlo a trovare una descrizione convincente e adeguata dei suoi errori. L’idea dello studioso, dunque, la spenderei qui per l’insegnante, che non deve essere solo un giudice che “sa” che cosa è accettabile e che cosa no, ma sa anche spiegare “perché” una cosa è accettabile e una no.

Però è importante sviluppare le capacità di osservazione e di analisi degli studenti, no?
Certamente, insegnare a osservare una lingua, fornire strumenti per l’osservazione e per catalogare i dati che si osservano, è uno dei compiti dell’insegnamento della grammatica, probabilmente il più importante.

L’ “apprendente-utente” descritto nel Quadro comune è una persona di cui importa soprattutto chiedersi che cosa “sa fare”, con la lingua, piuttosto che quello che “sa”, della lingua. Ora, la grammatica è qualcosa che uno soprattutto “sa”, almeno secondo un modo di impostare la questione. Secondo lei quali sono i problemi e le cose da chiarire, se ci sono, nella conclusione secondo cui in definitiva “sapere la grammatica migliora l’uso della lingua”? Forse metto troppo carne al fuoco se aggiungo che Krashen ha parlato recentemente di un “effetto periferico” dell’insegnamento grammaticale.
A dire il vero, la distinzione fra ciò che si sa e ciò che si sa fare con una lingua non distingue da un lato la grammatica e dall’altro le cosiddette abilità: esiste una competenza esplicita ed una implicita della grammatica, un “saper fare” della grammatica che investe tutte le abilità. Conoscere la grammatica non è una cosa “altra” dal sapere parlare, scrivere, leggere, capire, ma è una componente di tutte queste abilità, anche se non si risolve in questo poiché esiste anche una competenza metalinguistica della grammatica che, appunto, è il “sapere” esplicito. Quanto la conoscenza esplicita della grammatica aiuti, preceda o segua la competenza implicita, questa è questione molto dibattuta, che ad esempio appunto in Krashen ha visto sostenere prima una posizione molto estrema – un paragone spesso citato è quello per cui sapere la grammatica non aiuta a parlare in modo più corretto più di quanto sapere la legge della leva non aiuti il saltatore con l’asta a saltare più alto – e ora contorni più sfumati. Credo che ci sia bisogno ancora di molta ricerca prima di poter rispondere a questa domanda in modo più solido. Difficilmente poi la risposta sarà netta, e dipenderà dalle abilità (scritte o orali, ricettive o produttive), dai livelli di lingua (fonetica, morfosintassi…), dall’età, dai livelli di competenza cui si fa riferimento: probabilmente competenza esplicita e implicita interagiscono in modo diverso in tutte queste circostanze.

La questione della permeabilità fra conoscenza implicita e esplicita è certo complessa. E la formulazione che ho usato prima – “sapere la grammatica migliora l’uso della lingua?”- sembra richiedere più che una risposta una serie di chiarimenti e di distinguo. Non crede però che qualche risposta affidabile sia già adesso disponibile? Posso constatare ogni giorno con i miei studenti che il tempo da loro speso nell’approfondire la conoscenza del sistema della lingua entra effettivamente in dinamica con le loro interlingue, e dunque in qualche modo le modifica. E lo stesso potrei dire, per fare un altro esempio, del lavoro”cognitivo-muscolare”sulla pronuncia, anche questo una forma di “studio” di aspetti sistematici della lingua che può lasciare segni. Sembra perfino banale dirlo. Certo ci sono modi e modi di accompagnare gli studenti in questo “studio”. E alcuni sembrano migliori di altri.
Qui il linguista ha poco da aggiungere: si tratta di esperienze accumulate nella pratica di insegnamento, a partire dalle quali varrebbe la pena fare ricerca e sperimentazione, con un controllo dei risultati.

Tornando al Quadro comune, e al suo spiccato pragmatismo. Un insegnante di lingua che si formi su questo testo che messaggio o che messaggi riceve, secondo lei, sulla grammatica e il suo posto nell’insegnamento? Qualcuno vede addirittura nel documento europeo quasi l’annuncio di una estinzione della grammatica. È una lettura fondata?
Mi pare che recentemente la grammatica sia tornata un po’ più di moda, almeno nella didattica della prima lingua… In questo campo, per quanto ne posso vedere io, di grammatica se ne studia troppa, ma dico questo soprattutto perché la si studia male: in modo passivo, e secondo modelli descrittivi deteriorati. Fatta così, la grammatica credo serva a poco. Ma il problema non è nell’insegnamento, è più a monte, nella formazione degli insegnanti: la formazione di un laureato in lettere oggi prevede pochissima formazione in questo campo, e questo non può che ripercuotersi nell’insegnamento. Credo che questo valga anche per l’insegnamento delle lingue straniere: se si può discutere su quanta conoscenza grammaticale esplicita serva allo studente, non ci sono dubbi che all’insegnante di competenza grammaticale ne serva molta, anche se decide di trasmetterne poca!
Il Quadro comune in effetti è incentrato sulle funzioni comunicative, ma questo è dovuto anche alla necessità di proporre appunto un quadro “comune” di riferimento, mentre la grammatica è specifica di ogni lingua; certamente, la traduzione in competenze grammaticali delle indicazioni del quadro è ancora in buona parte da sviluppare, sia in termini di proposte di sillabo, sia in termini di materiali didattici, e il rischio è che, in assenza di indicazioni, si mantenga una frattura fra un’organizzazione dei contenuti funzionali e di quelli grammaticali. Vorrei però sottolineare un elemento che ancora non è emerso, e che invece a me sembra importante: nel momento in cui si tratta di organizzare i contenuti grammaticali di un sillabo, non andrebbero tenuti presente solo le indicazioni della ricerca glottodidattica, ma anche quelle della linguistica acquisizionale, che da tempo studia lo sviluppo della competenza linguistica nell’apprendimento, specialmente in quello spontaneo. La mancanza di questo raccordo impoverisce, secondo me, la ricerca glottodidattica: rispondere alla domanda “che cosa insegnare” non può prescindere dall’altra: “come avviene l’apprendimento”.

In questo stesso numero c’è una recensione del Sillabo di Italiano L2 di Maria G. Lo Duca. Di questo Sillabo l’autrice scrive che “si è costantemente confrontato con le ricerche acquisizionali e ne ha estrapolato tutti i suggerimenti che sono parsi utili ed opportuni sia nella selezione degli indici linguistici sia nella loro messa in sequenza”. Tuttavia l’autrice ritiene ancora “prematura la possibilità di costruire un sillabo interamente organizzato sulla base dei risultati degli studi acquisizionali”. E questo “soprattutto a causa del fatto che non tutti i fenomeni connessi con l’acquisizione dell’italiano come L2 sono stati adeguatamente esplorati” e anche per la scarsa generalizzabilità dei risultati ottenuti data la relativa esiguità dei soggetti studiati. Concorda con queste riserve?

Conosco e in buona parte condivido le riserve dell’autrice, almeno nel senso che è vero che la linguistica acquisizionale non ha materiale pronto da offrire per un sillabo completo, e del resto questo risultato non è forse nemmeno un suo obiettivo primario. Però, una collaborazione proficua fra linguistica dell’acquisizione e glottodidattica non passa solamente attraverso la traduzione dei risultati della ricerca linguistica in sillabi didattici. La linguistica acquisizionale offre un modo di guardare all’acquisizione delle lingue, alla grammatica delle varietà di apprendimento, che io credo siano un contributo prezioso al sapere dell’insegnante, per metterlo in grado di capire meglio “che cosa accade” ai suoi allievi quando imparano la lingua, per interpretare le loro produzioni, darne una “diagnosi” in termini di qualità e modalità del percorso e dei risultati di apprendimento. In questo senso, una formazione (anche) di linguistica acquisizionale sarebbe molto utile, io credo, alla professionalità dell’insegnante.

Nella sua Grammatica italiana lei non considera l’analisi testuale preferendo concentrarsi sul classico percorso di studio “dalle parole alle frasi”. Il Quadro comune, coerentemente col suo approccio pragmatico-strumentale, pone viceversa al centro il testo come unità base della comunicazione e invita così, almeno in modo implicito, a lavorare sulla lingua a partire da e muovendosi su un terreno testuale.
Non credo che “partire dal testo” sarebbe una risposta alla difficoltà di tradurre la grammatica in forme utili per l’apprendimento di una seconda lingua. L’analisi testuale, per la natura stessa dell’oggetto di cui si occupa, non consente la formulazione di regole semplici ed esplicite, cioè predittive, quali quelle che cerca chi impara una lingua. Inoltre, la grammatica di cui si ha bisogno quando si impara una lingua, almeno inizialmente, è soprattutto una grammatica della frase. Ci vorrebbe, questo sì, una maggiore attenzione appunto al livello della frase, e non solo alla morfologia della parola: la scelta tra frase e parola per la nostra lingua è molto condizionata dalla pesantezza e ricchezza morfologica dell’italiano, per cui sembra che imparare la grammatica dell’italiano sia soprattutto imparare una morfologia ricchissima. Ma soprattutto credo che il mutamento di prospettiva utile per la didattica di una lingua come seconda lingua sia quello che passa da una grammatica delle forme ad una grammatica delle funzioni: non “come è fatto il passato prossimo e a che cosa serve” ma “come si può esprimere il valore temporale di passato in italiano”. Secondo me è questo lo spostamento di prospettiva che migliorerebbe la qualità dell’insegnamento grammaticale.
Fonte: officina.it numero 3

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