L’italiano perde in diritto – di Antonello Cherchi

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Il diritto internazionale non parla italiano. Negli ambienti accademici così come nelle stanze dei grandi studi professionali il nostro idioma è inesistente. Tanto, tantissimo inglese, qualche definizione tedesca, un minimo di riconoscimento al nazionalismo francese, rari vocaboli spagnoli. Ma la lingua di Dante non c’è.


Unica consolazione rimane il latino. “Corpus iuris” (il corpo del diritto), “error facti” ed “error iuris” (errore di fatto e di diritto), “condicio sine qua non” (condizione senza la quale non). Per citare solo alcune espressioni.
È un po’ un paradosso. L’Italia, un tempo culla del diritto, ha dovuto cedere il passo. «Nonostante la tradizione giuridica augusta – spiega Fausto Giunta, ordinario di diritto penale a Firenze – non abbiamo la capacità di esportare i vocaboli del nostro diritto. A differenza di noi, i tedeschi riescono, invece, a imporre a livello internazionale alcuni termini. Non tanti, per la verità, ma se ci si incontra con colleghi stranieri e si parla di “Tatbestand” (fatto tipico, tipicità) o di “Schuld” (colpa, colpevolezza) o ancora di “Objektive Zurechnung” (imputazione oggettiva), tutti sono in grado di capire».
«Lo stesso accade in ambito civilistico – aggiunge Salvatore Patti, ordinario di diritto privato alla Sapienza di Roma – con “Garantievertrag” (contratto autonomo di garanzia)».
Questo non significa che la Germania sia indenne dalla contaminizione linguistica che ha colpito l’Italia (e non solo). «Anche lì – prosegue Patti – si usano sempre di più vocaboli inglesi. È una delle conseguenze del dominio dei mercati da parte delle aziende americane. Va sa sé, infatti, che i contratti internazionali siano quasi sempre scritti in inglese. Anche il diritto si globalizza: un po’ mi preoccupa, ma bisogna essere realisti».
«L’inglese – gli fa eco Gustavo Olivieri, ordinario di diritto commerciale a Roma, università di Tor Vergata – è diventata la lingua delle transazioni commerciali. E gli istituti giuridici di matrice anglosassone risultano favoriti. Ma questo non vuol dire che non siano presenti anche istituti giuridici italiani. Abbiamo anzi dato un valido contributo all’elaborazione della cultura giuridica internazionale. Siamo riusciti a esportare gli istituti giuridici, non la lingua».
Men che mai, poi, nel diritto amministrativo. «È nella natura di questa materia – afferma Marcello Clarich, ordinario di diritto amministrativo alla Luiss di Roma – un certo “provincialismo”. Fuori discussione, dunque, trovare in ambito internazionale un termine italiano di diritto amministrativo. Prima siamo stati influenzati dai francesi e dai tedeschi. Negli ultimi decenni, invece, la contaminazione è anglosassone».
D’altra parte, usare le parole straniere non è solo questione di vezzo o moda. «In determinati contesti – sottolinea Giunta – può esserci anche questa componente. Di solito, però, la ragione è più sostanziale. Prendiamo il termine “computer crimes”: è vero che in italiano potrei tradurlo come “reati informatici”, ma sfuggirebbe una parte importante del significato della definizione inglese, la quale evoca la dimensione criminologica del fenomeno e allo stesso tempo è in grado di connettergli il carattere transnazionale insito in tali condotte».
Non resta che accontentarci di difendere l’italiano fra i nostri confini. Magari riconoscendolo – come vogliono fare diversi disegni di legge all’esame del Parlamento, che nella scorsa legislatura riuscì a far approvare la proposta dalla Camera – lingua ufficiale della Repubblica. Impegno da metter nero su bianco nella Costituzione, che sul punto ora tace, perché i Padri costituenti ritennero pleonastico quel riconoscimento.
Ma anche in sede europea – dove imperano inglese, francese e tedesco – la partita non è persa. Come ha ricordato il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, ai propri ministri con una lettera in cui li invita a parlare e difendere l’italiano.

Fonte: www.ilsole24ore.com

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